La gravidanza è un viaggio intimo, non uno scoop da anticipare

Quando la pancia parla prima della donna: perché la “caccia al pancino” è una forma di violenza silenziosa

In questi giorni ha fatto discutere la diffusione da parte di alcune testate di immagini di Giulia De Lellis, evidentemente incinta, ma senza che lei avesse ancora comunicato nulla. A colpirmi, più della notizia in sé, è stato lo sfogo di Aurora Ramazzotti, che ha definito “irrispettoso che non lo abbia detto lei”. E ha ragione. Perché dietro quella che può sembrare solo “curiosità” si nasconde una modalità profondamente invasiva di guardare al corpo delle donne, e in particolare al corpo che cambia.

Lo vedo ogni giorno nel mio lavoro con donne e coppie che attraversano il tempo della gravidanza — anche quando quella gravidanza ancora non c’è, o tarda ad arrivare. L’attenzione morbosa rivolta alla pancia, ai suoi sospetti rigonfiamenti, ai vestiti che “coprono ma non troppo”, è una delle tante forme di controllo simbolico che la nostra cultura esercita sul corpo femminile. Un controllo che spesso passa inosservato, ma che pesa.

Gravidanza e visibilità: una questione di tempo interiore

La gravidanza non è solo un evento biologico. È un processo affettivo, psicologico, relazionale. I primi mesi, in particolare, sono un tempo fragile: si custodisce un cambiamento che ancora deve assestarsi dentro, prima che fuori. E spesso si sceglie il silenzio proprio per proteggere quel tempo, per viverlo senza doverlo spiegare.

Molte donne decidono consapevolmente di non condividere la notizia subito. Alcune lo fanno per prudenza medica, altre per motivi personali, intime storie familiari o esperienze precedenti di lutto, abortività, fatica nel concepire. E in questo non c’è niente di sbagliato. Anzi: c’è saggezza.

Ma quando è il mondo esterno ad “annunciare per conto tuo”, qualcosa si rompe. Non è solo questione di privacy violata. È la perdita del potere di dire con la propria voce ciò che riguarda il proprio corpo e la propria storia.

Non tutte le pance raccontano la stessa storia

Non tutte le pance sono “una bella notizia”. Dietro una rotondità appena accennata può esserci una gioia che ancora non osa dirsi, una paura antica, un’attesa lunga e faticosa, o un dolore recente. Può esserci anche un desiderio che si è infranto. E quando i riflettori si accendono troppo presto, o troppo forte, tutto questo rischia di venire travolto da una narrazione unica, superficiale, che non lascia spazio alla complessità dell’esperienza.

Per questo è fondamentale che ogni donna (e ogni coppia) abbia il diritto di scegliere se, come e quando comunicare la gravidanza. È una questione di rispetto, ma anche di salute emotiva.

Una cultura da cambiare, insieme

Abbiamo bisogno di costruire una cultura diversa, che sappia fare un passo indietro davanti alla trasformazione di una donna. Una cultura in cui il corpo femminile non sia terreno di indagini pubbliche, ma luogo da onorare. Una cultura in cui le immagini non parlino prima della persona che ritraggono.

In fondo, una gravidanza non è una notizia da dare: è un cammino da vivere. E solo chi lo sta percorrendo può decidere quando e con chi condividerlo.

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